Dietrich Bonhoeffer – Contributo dal Dr.Tagliaferri

Dietrich Bonhoeffer

La ricerca di Dio nell’etica del cristianesimo non religioso.

Ottant’anni orsono, il 9 aprile 1945, moriva uno dei più importanti teologi del XX secolo: Dietrich Bonhoeffer.

Teologo e pastore evangelico luterano, uomo intelligente, di raffinata cultura e di grande carica umana, nacque a Breslavia nel 1906, studiò a Tubinga e Berlino e ben presto ottenne prestigiose cattedre universitarie di filosofia e teologia.

Consapevole della estrema difficoltà di condensare e rendere comprensibile in poche righe l’itinerario teologico e la ricchezza del profondo e complesso pensiero di Bonhoeffer, tenteremo nell’impresa avvalendoci unicamente di testimonianze e documentazione di provenienza cattolica.

Bonhoeffer è stato uno dei rari intellettuali tedeschi che riscattarono, con la loro opera, l’intera cultura tedesca assoggettata alla devastazione materiale morale e spirituale causata dal nazismo, un’ideologia che ha sconvolto tutti gli aspetti etici dell’uomo.

Ispiratori e guida del suo pensiero furono il teologo svizzero Karl Barth e il filosofo danese Søren Kierkegaard; la sua fu una teologia intesa come esperienza intellettuale e come servizio alla comunità cristiana.

Teologia esistenziale e secolarizzata dunque, vissuta e pregata. Ebbe l’ambizione di costituire un nuovo modo di pensare i rapporti tra azione morale e fede cristiana.

Uomo del suo tempo visse le contraddizioni e le controversie storiche di quel periodo interpretando i tratti tipici della spiritualità luterana imperniata sulla parola biblica, sulla vita impegnata al servizio di Dio e al prossimo, una fede priva delle bardature religiose.

Per Bonhoeffer la totale alterità di Dio rispetto all’uomo, il “Dio è altro” di Karl Barth e di Sant’Agostino, ci ricorda che non possiamo giungere a Dio attraverso la ragione e neanche pensare che le “buone opere” del cristiano siano la moneta con cui guadagnarsi la Salvezza.

L’uomo deve impegnarsi concretamente nel mondo e nella storia, quello che lui chiamava “responsabilità”, abbandonando quella religione che attribuisce a Dio, per usare le sue parole, il ruolo di “tappa buchi” per risolvere i problemi della quotidianità, è quello che lui chiama “cristianesimo non religioso”.

Al contempo, riconquistare il messaggio cristiano centralizzando gli uomini e il benessere dell’uomo e, soprattutto la vita, che per Bonhoeffer è l’essenza dell’uomo.

E’ l’etica cristologica, quella che non rinnega Dio, perché Dio lo ritroviamo vivendo da uomini, vivendo la dimensione umana che Cristo ha voluto e assunto. Un’etica che rifiuta il concetto kantiano di universalità, poiché per Bonhoeffer nessuna norma, per quanto universale, può sottrarsi alla ”ambiguità della situazione storica”. Un’etica che fa entrare in contatto l’uomo con Dio solo attraverso la fede.

Chi agisce nella Storia da uomo libero e giusto, da uomo universale e non individuale, chi ama l’uomo trova Dio. Per fare ciò non dobbiamo eliminare l’uomo bensì l’idea che l’uomo basti a sé stesso.

Bonhoeffer visse in prima persona lo scontro che avvenne all’interno della chiesa evangelica tra coloro che in accordo con l’apologetica dell’ordine dominante per cui il buon cristiano deve essere coerente al potere, avevano deciso la convivenza e il supporto ideologico al nazismo, a questa Chiesa si contrappose un gruppo di pastori e fedeli riuniti attorno alla “chiesa confessante”, la “Bekennende Kirche” fondata da Bonhoeffer che non solo teorizzò la resistenza ma la praticò in prima persona.

Questo gruppo, quello della “chiesa confessante”, diventerà poi un’icona della “buona Germania”, quelle persone che con il loro sacrificio si pensava avrebbero potuto riscattare la colpa collettiva.

La “chiesa confessante”, piccolo gruppo dentro la chiesa evangelica, diventò la “chiesa di tutti”, simbolo di una morale collettiva.

Partecipò attivamente alla lotta contro il nazismo, fu arrestato nel 1943 e in carcere scrisse il testo biografico epistolare che è la summa del suo pensiero: “Resistenza e resa”, dove “resa” deve essere intesa come abbandonarsi alla volontà di Dio. L’opera fu pubblicata postuma, nel 1951.

Quando la Gestapo scoperse il suo coinvolgimento nel fallito attentato a Hitler del 20 luglio 1944, fu trasferito nel lager di Buchenwald e infine a Flossenbürg.

Venne impiccato il 9 aprile 1945 per ordine diretto di Hitler.

Le sue ultime parole: “è la fine, per me l’inizio della vita”.

Ricordiamolo per il suo pensiero e come uomo che si è speso per la giustizia e l’amore del prossimo. In particolare, a favore dei più deboli.

Dieci giorni dopo il campo di Flossenbürg fu liberato dagli americani.

Dott. Adriano Tagliaferri

Quando a teatro si fanno gli scongiuri – Contributo dal Dr.Tagliaferri

Anche quest’anno, un’opera di Giuseppe Verdi aprirà la stagione lirica scaligera con una grande e complessa opera, assente da Milano dal lontano 1999, un’opera legata ad una tradizionale brutta fama tale da definirsi “Innominabile”.

Noi, nel solco della tradizione, continueremo a non nominare quest’opera foriera di sventure. Queste, innumerevoli e tutte documentate sono capitate sulla scena in molte edizioni della sua storia interpretativa compresa la “prima” a San Pietroburgo rinviata di un anno per la malattia del primo soprano, fino all’edizione del 1960 al Metropolitan di New York quando il baritono Leonard Warren morì in scena proprio mentre attaccava…”morir tremenda cosa”!

Opera drammaturgicamente complessa, tratta dal dramma di Angel Saavedra “ La fuerza del sino” del 1835 e nata dalla penna del Piave e del Ghislanzoni venne rappresentata nel 1862 a San Pietroburgo e approdò alla Scala nel 1869 dopo un robusto rifacimento del terzo atto insieme alla creazione della celeberrima Sinfonia (quella dei poderosi tre “Mi” ribattuti degli ottoni per intenderci, la tonalità del destino) .

Partitura atipica nella produzione verdiana, dove commedia e tragedia si mescolano con l’energia di un inarrestabile e imperscrutabile destino. Sebbene la trama sia una delle più inverosimili che si possa immaginare (esattamente l’opposto dell’unità aristotelica di spazio e tempo nel dramma) rappresenta una pietra miliare a favore della successiva produzione operistica russa, primo tra tutti Il il Boris Godunov di Musorgskij che non avrebbe la veste a noi nota senza il fondamentale insegnamento verdiano.
Lasciamo al Lettore il compito di leggere il racconto drammatico dell’opera per dedicarci alla sua vera essenza, quell’estetica che va contro ad ogni principio verdiano: Il ”fare svelto”, la ”stringatezza”, la ”parola scenica”, la ”tinta unitaria”, tratti distintivi dello stile verdiano, vengono qui diluiti e anziché raggiungere rapidamente lo “scioglimento “ del dramma, lo prolungano in situazioni sceniche dispersive, oltre che inverosimili.
Siamo ben lontani dalle sintesi fulminanti di tante opere verdiane fino a raggiungere i dispersivi echi mahleriani e schilleriani della seconda versione, quella scaligera.

Se ne accorse lo stesso Verdi, uomo di dubbi sentimenti religiosi, quando si preoccupò per i troppi morti dei protagonisti, che il pubblico non gradiva, tanto che propose una versione, l’ultima, con un finale, quello con la redenzione di Alvaro, che contrappone il pessimismo del destino, cieco e insensato, ad un disegno della Provvidenza, che vede nella fede l’unica via d’uscita.
Ecco questo era Verdi, burbero, intrattabile, miscredente ma è anche quello che conclude i suoi drammi musicali con uno spiraglio di Luce, quella Luce che lo condurrà a scrivere, “giunto sul passo estremo della più estrema età”, i “Pezzi sacri” da “mettere sotto il cuscino” come Lui voleva.

Ultima annotazione: quest’opera è celebre perché popolare o viceversa? Che sia stata la mano di Dio a ispirare una simile partitura? Se dubitiamo, ma senza certezza, che il burbero e spigoloso Verdi credesse nell’aldilà, certamente, per “Forza” vien da dire, Dio credeva in lui, un contadino proiettato nel futuro.

Dott. Adriano Tagliaferri